Luca MICHELETTI: «È bello esplorare certi personaggi, per portarli con sé e per poi farli fiorire»

«Sono passato dalla porta del palcoscenico, anziché dalla buca d’orchestra».

Tra una serie di recite del Don Giovanni al Maggio e le rappresentazioni del Misantropo di Molière alla Pergola, a Firenze abbiamo avuto il piacere di incontrare Luca Micheletti che ci parla della sua evoluzione da attore e da regista di teatro di parola a baritono e regista operistico, oltre che delle sue molteplici attività culturali

© E. Mereghetti

Camillo FAVERZANI: Avendo assistito venerdì scorso all’ultima recita del Don Giovanni, la prima domanda è d’obbligo: come si passa dal Convitato di pietra al Don Giovanni?[1]
Luca MICHELETTI (sorride): Io ho amato Molière fin da quando ero bambino. Mio padre[2] lo recitava. Era uno dei suoi autori dell’anima. E fin da piccolo io l’ho seguito in questa avventura molieriana. Con Il misantropo sono al mio ottavo Molière. Direi che è una buona percentuale. E quindi anche in Mozart, per me, l’approccio privilegiato è passato da Molière. Nonostante nel libretto Da Ponte abbia molto cambiato. Non tanto Molière, che resta un riferimento diretto di riflessione: ci sono delle battute che sono le stesse, semplicemente tradotte in italiano. Però pesca pure molto dalla tradizione precedente. La grande teatralità, che io sento anche nel Don Giovanni di Mozart e di Da Ponte, viene da quel teatro fatto di anima sia popolare che ipercolta, così specifica del teatro molieriano. Molière è stato un teatrante itinerante, come i miei antenati per altro,[3] ha attraversato la provincia, ha fatto la gavetta, come si direbbe oggi, e poi è approdato su uno dei palcoscenici più illustri del mondo, cioè la corte del Re Sole.
Nel Don Giovanni esistono queste due anime, cioè il passaggio da un livello carnascialesco, più ironico, dai giochi di parole a sfondo osceno, all’infinita raffinatezza del trattamento musicale, che sublima la storiella di contadinotti in un dramma d’avventura e lo porta ad essere una riflessione sull’esistenza, sull’approccio all’edonismo, al materialismo. Un percorso anche filosofico sul come veniva inteso essere libertini.

C.F.: In effetti la componete libertina, ovviamente nel Don Giovanni, ma forse in tutto Mozart e soprattutto nelle sue tre opere dapontiane, è abbastanza ricorrente. Percepisce il Dom Juan di Molière come una fonte diretta?
L.M.: Lo rileggevo proprio in questi giorni, mentre preparavo Il misantropo. Ci sono delle battute di Leporello che sono veramente un calco di quelle di Sganarello. C’è da dire – anche se lo dico un po’ a bassa voce, ma lo dico – che, come Boito ha fatto un ottimo servizio a Shakespeare quando ha affrontato Otello, così Da Ponte ha fatto un buon servizio, non tanto a Molière, ma alla tradizione in generale di Don Giovanni, perché l’ha reso più coerente. Anche perché il titolo di Molière risente di un grande frammentismo, è stato composto in fretta e furia, dopo l’insuccesso del Tartufo, in prosa, perché non aveva tempo di versificarlo. Insomma, non è un Molière così pensato. Eppure ha dentro tutto il suo mondo, mondo che in parte si riflette anche nell’opera lirica.

Don Giovanni, regia Kasper Holten, Royal Opera House, Londra, 2022
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C.F.: Otello, va da sé che è Shakespeare. Di Don Giovanni ce ne sono a bizzeffe. E il Don Giovanni di Molière è edificante, mentre in Mozart esiste il lieto fine, perché è d’obbligo nell’opera del Settecento, ma il protagonista si danna…
L.M.: Sì, diciamo che resta moderno proprio per questa ambiguità del finale. Un chiaroscuro sull’esistenza. Perché Don Giovanni non perde del tutto di fronte al Commendatore.

C.F.: Soprattutto nella regia del Maggio…
L.M.: In fondo schiaccia l’occhiolino verso i secoli a venire, più che ai suoi contemporanei. È senz’altro un passo avanti. Ciò non significa che sia un modello da seguire, naturalmente.

C.F.: E come si passa dal Don Giovanni all’Alceste?
L.M. (sorride): Alceste, curiosamente, ha in sé un’anima per così dire dongiovannesca. Nel senso che piace molto alle donne. Attiva le brame delle tre donne del testo. Ma, siccome non sa gestire l’umanità, non sa gestire neanche il femminile. Perché? Probabilmente perché, come dice all’inizio, il suo sentimento per la protagonista è molto contraddittorio, nella misura in cui, in tutto il genere umano, alla fine lui elegge qualcuno da adorare che non solo è un essere come tutti gli altri, ma è anche un essere tra i più frivoli, tra i più superficiali. E lo confessa: «Confesso il mio debole; ha l’arte di piacermi». Proprio questa contraddizione, molto grottesca, molto comica, rende Il misantropo, così come il Don Giovanni, una sorta di dramma giocoso.

Molière, Il Misantropo, regia Margherita Palli, Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana
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Diciamo che, diversamente dal Don Giovanni, nel Misantropo, come in tutte le grandi commedie molieriane, c’è al centro una malattia: la malattia di Alceste, la misantropia, secondo la teoria degli umori dell’epoca. Il sottotitolo era l’Atrabiliare amoroso. Quindi di Alceste non si può fare soltanto un odiatore della società, un moralista. È un osservatore del mondo che ha gli occhiali sbagliati. È un malato, come lo è Argante del Malato immaginario, o come è una malattia l’arrivismo di Jourdain (Il borghese gentiluomo).

C.F.: Una componente clinica esiste anche in Don Giovanni…
L.M.: Ma c’è un fatto: Molière non interpretava Don Giovanni. Ho avuto modo di affrontare alcuni Don Giovanni diversi. Ad esempio, ho potuto toccarlo quanto a caso clinico nella regia di Chiara Muti, a Torino, nello scorso novembre, con il maestro Muti sul podio. Mi chiedevano un personaggio schizofrenico, che si abbandona ad alcune dolcezze, ma non ha mai tempo di farlo fino in fondo. Don Giovanni è sempre in scena, canta dall’inizio alla fine, ma è come se non cantasse mai davvero. Non ha una grande aria tutta sua. Soltanto nel finale riesce a scavarsi un po’ dentro. Fino ad allora lo vediamo correre fino ad andare a sbattere contro quella morte che in fondo, come presentimento, comincia a sentire vicina fin dall’uccisione del Commendatore.

C.F.: È vero, gli altri personaggi hanno all’incirca un’aria per atto ciascuno. Per Don Giovanni la situazione è un po’ diversa, però canta sempre.
L.M.: Sì, canta sempre, ma la cosiddetta aria dello Champagne è una piccola parentesi di abbandono alla frenesia, la canzonetta è una sospensione quasi onirica. Il pezzo grosso, in cui Don Giovanni davvero ha modo di guardarsi allo specchio, è il finale.

C.F.: Parlando di Mozart, lei ha cantato sia Figaro che Almaviva. Come si affrontano entrambi e chi preferisce?
L.M.: Almaviva è una sorta di Don Giovanni ai minimi termini, senza la sua grandezza filosofica. Di Don Giovanni non ha la capacità di non scadere mai nel ridicolo. Don Giovanni non scade mai nel ridicolo. Almaviva deve anche essere un personaggio a tratti ridicolo, pur mantenendo la sua nobiltà. Però è chiaramente un uomo piccino. Come lo sono un po’ anche gli altri personaggi delle Nozze di Figaro. Lo stesso Figaro, che sembra tutto d’un pezzo, nella scena del giardino si fa fregare, anche se in maniera innocente.

C.F.: Forse è anche cosciente della situazione…
L.M.: Chi lo sa? Lì per lì, «Aprite un po’ quegli occhi», è uno scagliarsi contro il femminile, che si iscrive nella tradizione della letteratura misogina del tempo. È una pagina non aggressiva, però Figaro ha preso un granchio ed è bello che lo prenda. Poi lo scopre e, da par suo, rivolge la situazione a suo vantaggio. Sono molto intriganti entrambi i personaggi, perché non pienamente caratteri da commedia. Ho cantato solo una volta Almaviva, Figaro varie volte.
E di Figaro quello che amo di più è il suo essere ancora, da un lato, con un occhio rivolto al passato, il servo della tradizione barocca, mentre, dall’altro, è già un rivoluzionario, come per esempio nella regia di Strehler, che ho fatto e rifarò. Uno spettacolo sicuramente d’antan, però ancora vivo e intelligente. È intrigante questa doppia natura di una maschera bidimensionale, ma al contempo anche un uomo possente, che prende in mano il proprio destino contro una nobiltà repressiva e ridicola.

C.F.: E dal punto di vista vocale?
L.M.: Vocalmente, devo dire che il personaggio di Figaro, che è un ruolo anfibio, come del resto Don Giovanni, l’ho trovato sempre molto adeguato alle mie corde. Ma non posso dire che non lo sia anche Almaviva, per quanto abbia una scrittura più acuta e, nella tradizione, sia stato cantato a volte anche da voci quasi tenorili, più chiare. È una bella occasione che ci offrono Mozart e Da Ponte, a noi, voci gravi, di esplorare zone diverse.

C.F.: Forse la marcia in più di Figaro è l’intelligenza…
L.M.: Sono tutti personaggi molto intelligenti. Almaviva si lascia subito prendere dalla gelosia, perché lo vuole la commedia: il servo è furbo e il padrone si lascia fregare… Ma questo lo impone la convenzione.

C.F.: Altri progetti mozartiani? Tipo Guglielmo (Così fan tutte), per esempio…
L.M.: Me lo hanno chiesto varie volte, ma non si è concretizzato. Devo dire che, sulla carta, è più bidimensionale dei ruoli di cui abbiamo discusso finora. Però lo canterò con piacere, quando si presenterà l’occasione.

C.F.: Dal Convitato di pietra a Don Giovanni, da Don Giovanni a Alceste. Una domanda d’obbligo: ha debuttato come attore all’età di quattro anni; non si improvvisa una carriera da baritono; come è arrivato al canto?
L.M.: Innanzitutto, il mio amore per l’opera è nato da spettatore. Mi sono avvicinato a questo mondo, perché nella mia famiglia si faceva teatro e si andava a vedere sia teatro di parola che teatro d’opera. Mi ha sempre affascinato molto, nonostante non ci fossero musicisti in famiglia. Ma mi hanno spinto a studiare musica fin da bambino. Ho studiato pianoforte e poi mi sono innamorato del sassofono. Un repertorio lontano dall’opera. Ma l’opera stava lì e c’era la sollecitazione di recitare e fare anche teatro musicale. Infatti ho portato spesso la musica nei miei spettacoli, fin dai miei primi lavori da regista. Ma non era ancora teatro d’opera. Ho cominciato a studiare canto a progetto. Quando potevo curavo la voce.
Finché ho incontrato Mario Malagnini. Un po’ per caso. Mi hanno consigliato di farmi sentire da lui, perché mi dovevo preparare per l’episodio di un film di Marco Bellocchio, ispirato a Pagliacci, che richiedeva attori che sapessero anche cantare un po’ l’opera.

Sul set del film Pagliacci con Marco Bellocchio
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Quindi rimasi legato a Mario, che mi sollecitò a fare sul serio. E quindi, un poco alla volta, mentre continuavo la carriera di attore di teatro di parola, ci frequentavamo, studiavo dei ruoli, capivo la mia voce.
Poi, l’altro grande incontro, che mi ha letteralmente aperto le porte del palcoscenico d’opera, è stato quello con la famiglia Muti. Cristina prima, che mi ha audizionato per Jago, poi il maestro. Jago è ruolo solitamente d’approdo e per me è stato uno dei primi che ho incontrato. Probabilmente anche lì devo molto al tramite Shakespeare e la conoscenza teatrale delle modalità utili per far mio il personaggio, assieme a una preparazione vocale adeguata, mi ha condotto a riscuotere un gran successo. E da allora mi hanno cominciato ad osservare come uno che poteva fare sul serio.

C.F.: Ha debuttato a Cagliari nel 2018 con Escamillo (Carmen). Quanti anni di preparazione hanno preceduto il debutto?
L.M.: L’incontro con Mario, a cui faccio risalire la mia decisione di cominciare a istruire la mia voce, è avvenuto nel 2013. Prima avevo fatto molte esperienze di attore-cantante, ma non era ancora una carriera lirica. I Carmina Burana, qualche concerto, tanto Brecht, il Brecht anche più “da cantante”, Gli Orazi e i Curiazi, I setti vizi capitali, L’opera da tre soldi. Una specie di laboratorio vocale che poi è sfociato in una carriera lirica. All’opera io guardavo fin dall’età di vent’anni, però, da un lato, facevo un altro mestiere e, dall’altro, nonostante l’amore come spettatore, non mi sembrava il caso di fare questo passo, finché non mi sono sentito pronto. La mia storia è stata questa. Sono passato dalla porta del palcoscenico, anziché dalla buca d’orchestra.

Escamillo – Opera di Roma, regia Valentina Carrasco, 2022
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C.F.: Da Escamillo a Jago, con Muti. Abbiamo parlato di Mozart. Mi sembra che l’altra componente maggiore della sua carriera sia Verdi. Non solo Jago. Rigoletto, Luna (Il trovatore), mi pare che ci fosse un progetto della Traviata, non realizzatosi…
L.M.: Si è realizzato, ma in forma di film in Virtual Reality, un progetto molto interessante promosso da Cieli vibranti, con mia moglie Elisa Balbo nel ruolo della protagonista. Io ne ho curato la regia e ho cantato Germont padre; anche se si è trattato di una selezione dall’opera. In ogni caso ho in programma di ritrovare presto il ruolo in un allestimento compiuto, a teatro.

C.F.: E soprattutto Macbeth e poi, di recente, Monforte (I vespri siciliani), alla Scala, e Rodrigo (Don Carlo), che era previsto durante la pandemia ed è stato annullato…
L.M.: Debutto il mese prossimo al Covent Garden come Marchese di Posa, dopo aver aperto la stagione quest’anno, sempre a Londra, come Don Giovanni. Anche qui devo molto a Riccardo Muti, mi onora della sua fiducia, e col quale sto per debuttare anche un altro importante ruolo verdiano, dopo aver già cantato Macbeth al Bunka Kaikan di Tokyo, sempre diretto da lui… Come Mozart, Verdi è, oltre che un musicista immenso, un immenso uomo di teatro. Parto sempre da lì, perché effettivamente è l’approccio che mi è più consono. Poi c’è il livello vocale, che va esplorato cum grano salis. Nonostante abbia già fatto incursione in alcuni ruoli considerati “della maturità” per un interprete, come Jago, come Rigoletto, come Macbeth, mi pare che siano state incursioni feconde e sono state premiate da un buon esito. Ma, nei prossimi anni, per varie ragioni, non farò del ruolo di Rigoletto il mio cavallo di battaglia, per fare un esempio. C’è tempo. Però è bello cominciare a esplorare questi personaggi, per portarli con sé e per poi farli fiorire, nel corso del prossimo decennio, magari, quando anche l’età mi avvicinerà di più all’età anagrafica del personaggio.
Altro Verdi non mi richiede di essere un padre più o meno tormentato, per cui me lo sento più vicino fin d’ora. Penso soprattutto al Conte di Luna, a Rodrigo, a Jago, che rifarò, perché sono ruoli a cui tengo molto, come Macbeth. Nelle sue lettere e nelle didascalie, Verdi descrive Jago come un giovane alfiere, sfuggente, assolutamente lontano da quella creatura diabolica e troppo parlante che talvolta sentiamo. È sibillino… Insomma, per Jago quello che si richiede a livello vocale è anche un repertorio da attore. Per cui mi sollecita molto…

© Fabio Anselmini

C.F.: E il primo Verdi, anteriore alla trilogia popolare?
L.M.: Non ne ho ancora avuto l’occasione, eccetto per il Macbeth. Però potrei incontrarlo volentieri. Ho cantato il Macbeth con il maestro Muti, come dicevo, a Tokyo, e, come sempre con lui, nonostante la forma di concerto, è stato l’incontro con un personaggio molto scavato, sia a livello musicale che drammaturgico. È il suo modo di lavorare. È un ruolo impressionante per quello che viene richiesto vocalmente al protagonista. È un’opera di sperimentazione. Verdi si attarda a concepire didascalie anche estrose: voce strisciante… Ed è l’unico Verdi soprannaturale. Chissà cosa sarebbe stato il suo Re Lear
Non fa parte del primo Verdi, ma prossimamente canterò Un ballo in maschera. E un personaggio che aspetto, senza fretta ma con molta ansia, è Simon Boccanegra. La parabola di una vita, il peso del trono, ha qualcosa del Lear…

C.F.: Ha debuttato con la Carmen, repertorio francese. Altri progetti nel repertorio francese?
L.M.: Ce n’è uno molto bello, che però per il momento non si può dire. Diciamo: un Verdi francese.

C.F.: Oltretutto, sia I vespri siciliani che Don Carlo, all’origine sono francesi…
L.M.: Però finora mi si è presentata solo l’opportunità di cantarli in italiano.

C.F.: Aspirazioni?
L.M.: Riprenderò Carmen… Amo molto il repertorio francese. Per esempio, un’opera su cui lavoro, ma che vedo più in là nel mio percorso, è Thaïs. E poi mi piacerebbe molto, nel teatro giusto, con l’idea giusta, sia musicale che registica, incontrare il Faust, ma la versione in cui Mefistofele è cantato da un baritono, come può avvenire appunto per Escamillo. Con un colore più chiaro, strisciante, diverso da quello che ormai si è abituati a sentire. Ci sono le alternative scritte e il ruolo mi è così vicino, perché l’ho preso da tanti lati, sia come attore che come regista, attraverso varie riscritture.

C.F.: Volendo, c’è anche un Werther baritono…
L.M.: Mette il dito in una piaga, perché era un progetto che si stava concretizzando qualche mese fa, nella stagione post-Covid. Ma a causa di difficoltà nate da recuperi e da un calendario troppo fitto, è stato rinviato. Ma sì, è un ruolo che amo molto e infatti canto spesso l’aria in concerto, nella versione da baritono.

C.F.: Mi pare che, dalla sua storia, lei abbia un rapporto particolare con la cultura francese. Anche dal punto di vista della lingua, della traduzione di testi di teatro francese…
L.M.: Sì. Partendo da Molière, esiste addirittura una mia silloge di traduzioni, edita da Falsopiano qualche anno fa.[4] Ho tradotto entrambe le versioni dell’Histoire du Soldat,[5] sia la drammaturgia di Ramuz, sia l’edizione che debuttò a Losanna nel 2018, il cui libretto era disperso e che ho pubblicato l’anno scorso, proprio perché è un piccolo Faust ed è un tema che mi appassiona molto. Poi ho tradotto Koltès.[6] Molto per la scena e anche qualcosa per diletto. Per esempio, uno dei miei primi lavori è stata la versione di una raccolta poetica di Boris Vian: Je voudrais pas crever.[7] Sono molto vicino alla cultura francese anche per ragioni familiari. E quindi porto con me questo piacere, di metterla occasionalmente in italiano.

C.F.: Allora, quando canterà in Francia?
L.M.: Ancora non ho una data, benché nei prossimi anni sarò in giro per il mondo. Ma ne sarò molto lieto, non appena se ne presenterà l’occasione.

C.F.: Altri progetti di cui si possa già parlare?
L.M.: Potrebbe esserci un mio primo cauto incontro con Rossini.

C.F.: Il Figaro rossiniano?
L.M.: Di Rossini, io dico sempre che potrei cantare Figaro, perché lo abbiamo sentito cantare da qualunque voce. Perciò sì, prima o poi Figaro vorrei cantarlo. Il ruolo a cui penso per adesione emotiva però è il Tell. Un Rossini un po’ speciale. In francese o in italiano.

C.F.: Aspirazioni? Quali compositori e quali personaggi le piacerebbe affrontare?
L.M.: Personalmente, mi interessa molto anche il Novecento. Prima o poi mi piacerebbe cantare Wozzeck. Con molta cautela, amo molto Wagner. Un certo Wagner, credo che potrebbe funzionare. Poi progetti particolari come quello che siamo riusciti a realizzare a Genova, accostando La serva padrona e Trouble in Tahiti. È stato molto stimolante. Partendo dalle caratteristiche e dalle possibilità del trasformismo, che in palcoscenico mi hanno sollecitato ad affinare, mi interessa spaziare anche vocalmente. Sempre con misura, senza stravolgere la mia natura. Sono in esplorazione…

C.F.: E il periodo intermedio: Bellini, Donizetti?
L.M.: Di Donizetti ho fatto soltanto Il campanello. Che è un pezzo di bravura per il baritono. Molto stimolante, molto giocoso, molto divertente. Il Donizetti che ho incontrato è molto teatrale e quindi molto vicino alle mie corde. In generale il bel canto però non è molto teatrale in senso canonico, ma la differenza la fa l’interprete. Per dire, spesso mi chiedono: ma non ti hanno mai offerto Lucia? Purtroppo no, ma penso che la mia voce sarebbe proprio adatta per la parte di Enrico.

C.F.: E il Donizetti buffo?
L.M.: Sì, oltre al Campanello, appunto, ho vari ruoli nel cassetto e spero di avere l’occasione di affrontarli presto.

C.F.: Abbiamo parlato soprattutto del baritono. Ma lei è anche regista d’opera. Ha già allestito vari titoli. Parlavamo della Serva padrona e di Trouble in Tahiti, ma possiamo aggiungere la Carmen, La vedova allegra
L.M.: E un progetto a cui tengo molto: il Faust di Schumann. Con alcune sequenze in prosa. Diciamo che per il momento, a parte la Carmen, come regista operistico mi hanno offerto progetti un po’ particolari. E questo mi piace molto e mi entusiasma. Anche in ragione della mia storia, un po’ particolare. Che si presta ad accostamenti bizzarri, come La serva padrona e Trouble in Tahiti, che peraltro nascevano da un’idea mia e di mia moglie, nel pensare a come gestire i mesi del lockdown. La vedova allegra è una mia incursione nell’operetta, che non sarà frequente, ma che però mi ha molto stimolato. Perché Danilo, dovendo essere pienamente attore e pienamente cantante, è in sintonia con la mia anima d’interprete. Anche se in modo un po’ tutto suo. Un altro ruolo anfibio, da baritenore quasi, da gestire in modo un po’ singolare, con la mia voce schiettamente baritonale. L’ho fatto e potrei rifarlo, ma molto occasionalmente. L’operetta mi interessa, però da regista d’opera mi piacerebbe affrontare anche titoli del grande repertorio, che magari hanno un forte precedente letterario, ma non necessariamente.

C.F.: Anche qui qualche aspirazione?
L.M.: Mi interessa molto il Verdi shakespeariano. Sarebbe molto stimolante anche tutto Il trittico pucciniano, un gioco sapientissimo di alchimie. Anche se io finora di Puccini ho cantato soltanto nella Bohème. Credo che, quando si parla di Puccini, si parli di un altro grande teatrante.

© Con Camillo Faverzani, a Firenze (D.R.)

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[1] L’intervista si è svolta a Firenze, il 18 maggio 2023. Luca Micheletti aveva appena concluso un ciclo di rappresentazioni del Don Giovanni di Mozart al Maggio Musicale Fiorentino, nella parte del protagonista (https://www.premiereloge-opera.com/article/compte-rendu/production/2023/05/14/maggio-musicale-don-giovanni-luca-micheletti-markus-werba-jessica-pratt-ruzil-gatin-anastasia-bartoli-zubin-mehta-giorgio-ferrara-critique/) e dal 16 maggio interpretava Alceste nel Misantropo di Molière alla Pergola. Per meglio apprezzare la molteplice carriera del baritono, attore e regista, è assai istruttivo consultarne il sito online: https://www.lucamicheletti.com/.

[2] L’attore Adolfo Micheletti.

[3] La famiglia Micheletti-Zampieri, all’origine della Compagnia I Guitti.

[4] Molière, La scuola delle mogli. Tartufo, o l’impostore. Il medico controvoglia. Le furberie di Scapino, a cura di Luca Micheletti, Alessandria, Falsopiano, 2018.

[5] Histoire du soldat: da dire, suonare, danzare, testo di Charles-Ferdinand Ramuz, musica di Igor Stravinskij, a cura di Luca Micheletti, versione italiana di Giusi Checcaglini e Luca Micheletti, Rudiano, GAM, 2012; Histoire du soldat, a cura e traduzione di Luca Micheletti, Damiani, 2021.

[6] Bernard Marie Koltès, Voci sorde, a cura e traduzione di Luca Micheletti, Parma, Diabasis, 2013.

[7] Boris Vian, Io non vorrei crepare: pruma de iga est, traduzione di Luca Micheletti, Rudiano, Gam, 2008.

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