ENEA SCALA: «Adoro tutto quello che è scritto bene per la mia voce!»

Di passaggio a Parigi per una memorabile Anna Bolena data in concerto al Théâtre des Champs-Élysées, il tenore ENEA SCALA ci parla dell’evoluzione del suo repertorio, dei rapporti con i registi, con i direttori d’orchestra e con i teatri, e dei suoi progetti per il futuro

Camillo FAVERZANI: Ho avuto la fortuna di assistere ad una delle rappresentazioni della Norma a Bruxelles nello scorso dicembre, rappresentazioni che purtroppo sono state interrotte a causa delle restrizioni adottate dal governo belga per far fronte alla pandemia e che, in ogni caso, si sono tenute in presenza di un pubblico estremamente ridotto. Come ha vissuto l’esperienza del covid? É stato un momento difficile per gli artisti?
Enea SCALA: Sì, certo, però per chi, come me, aveva già avuto una carriera in ascesa e non era più tornato a casa se non per una ventina di giorni o un mese al massimo, cioè quando era libero, il primo lockdown è stato anche un momento, di riconciliazione con sé stessi, con le amicizie, con la famiglia, la casa, ecc. E se abbiamo sofferto, chi più chi meno, delle perdite economiche, ci sono stati aspetti che hanno permesso una crescita interiore, una maturazione, un momento per riflettere, pensare anche alla nostra passione, che ci permette di accettare certi sacrifici, perché è anche una vita di sacrifici, il fatto di non essere mai a casa. E quindi è stata anche l’occasione di pensare quanto il gioco valesse la candela, qual è il ritorno che noi abbiamo, le soddisfazioni, che non sono solo economiche, perché se così fosse, sarebbe solo un fardello difficile da sopportare, rispetto all’assenza di vita sociale, di vita privata. E credo che anche vocalmente, tecnicamente, almeno per quanto mi riguarda, mi sono analizzato, ho studiato, probabilmente sono cresciuto.

Poi, dall’estate del 2020, si è ricominciato a fare qualcosa, con pubblico ridotto, all’aperto, durante l’estate, all’Arena di Verona, alla Fenice, i progetti in streaming, a Bruxelles, La bohème a Marsiglia, il Werther a Gent. Ma sono stati i momenti peggiori, perché questi progetti erano stati concepiti per non abbandonare il pubblico, perché il teatro sopravvivesse, e anche per noi artisti, guadagnando ovviamente molto meno, solo su una recita. Però bisognava osservare una settimana di quarantena prima dell’inizio delle prove, con l’angoscia di risultare positivo, poi l’ansia di contagiarsi durante le prove o durante il concerto, correndo il rischio di non poter tornare in Italia. Ma anche in questa stagione, nonostante i vaccini, mi sono ritrovato a Bruxelles, durante la Norma, e poi, subito dopo ad Amburgo per la Manon, a fare il test ogni giorno. E quindi ogni mattina ci si svegliava con il dubbio: chissà se oggi sono negativo, se posso cantare, se devo rimanere ancora una settimana prima di ripartire? Oltre agli annunci in teatro: per esempio, tal giorno il soprano non può venire perché è ammalata, anche se non dicono che ha il covid. Cancellazioni, sostituzioni. È non è finita: con le varianti, ormai abbiamo imparato a conviverci. E purtroppo è successo anche a me, con tre o quattro giorni di tosse e raffreddore.

Norma (Monnaie di Bruxelles, © Karl Forster)

C.F.: Per tornare ad argomenti più ameni, poi progressivamente ci sono stati vari tentativi di riapertura, soprattutto dalla tarda primavera del 2021, e si arriva alla Norma. Mi pare che Pollione sia stato un ruolo importante nella sua carriera, una svolta.
E.S.: Sì, sempre concepito, per quanto mi riguarda, nella direzione del baritenore belcantistico, perché, se posso dire, Pollione non solo non ha nulla in più, ma direi che ha anche qualcosa in meno rispetto al baritenore rossiniano, perché in confronto ai ruoli rossiniani che ho cantato e che canterò nuovamente, Rinaldo di Armida, Rodrigo della Donna del lago, Otello, Pollione non ha né i sovracuti né i gravi di questi personaggi; la parte centrale, sì, è la stessa, ma non ha la coloratura, che invece è scritta per i ruoli femminili di Norma e Adalgisa. E questo fa supporre che il Donzelli più maturo, primo interprete del ruolo, avesse perso la duttilità da rossiniano, quella del Torvaldo (Torvaldo e Dorliska) o del Cavaliere Belfiore (Il viaggio a Reims). È una parte che è stata considerata molto lirica, fin troppo, in modo del tutto erroneo, perché stilisticamente spesso non si è cantato quanto ha scritto Bellini. Si sono ascoltate grandi voci cantare questo ruolo, ma al giorno d’oggi si tende a proporre Pollione a colleghi che sono più o meno della mia stessa vocalità. Chi più, chi meno, con differenze, con sottigliezze di natura vocale diversa, stiamo tutti affrontando questo ruolo nel modo appropriato.

C.F.: È vero che nel passato la parte è stata cantata da molti tenori drammatici, probabilmente non nel modo filologico più adeguato.
E.S.: Non solo in questo caso, perché anche Les Huguenots sono stati cantati da Franco Corelli, per quanto in italiano, ma la partitura e lo stile francese non corrispondono assolutamente a quel tipo di vocalità. Inoltre si sono sempre fatti molti tagli dei passaggi più impervi. Ma questo accadeva anche per molti ruoli rossiniani prima della Rossini Renaissance. Nell’Armida di Firenze con la Callas, per esempio, i tre tenori cantavano un quinto di ciò che è scritto nella partitura. Solo la Callas cantava ciò che era scritto e per questo possiamo dire che sia stata la prima rossiniana del teatro moderno.

C.F.: Ma è vero che Pollione è un tenore un po’ atipico in Bellini, rispetto a Elvino (La sonnambula) o ad Arturo (I puritani), e anche rispetto al periodo, gli anni 30 dell’Ottocento, un tenore che annuncia il Donizetti della maturità, quasi preverdiano.
E.S.: Infatti, non è per niente concepito come i ruoli per Rubini, con le stesse difficoltà di canto verso l’acuto, nella coloratura. È un ruolo decisamente più lirico, ma questo non vuol dire che debba essere drammatico. L’orchestrazione non è mai così forte da essere drammatica. Ricordiamoci che Donzelli cantò Pollione solo sei anni dopo Belfiore, entrambi concepiti per la sua voce, quindi non possiamo immaginare che in un così breve lasso di tempo si fosse trasformato in un Del Monaco.

https://www.youtube.com/watch?v=lYjXWJ-FDxY

Rigoletto, « Ella mi fu rapita » (Teatro Verdi di Pisa , dir. Francesco Pasqualetti)

C.F.: Abbiamo quindi tre ruoli, di tre compositori diversi, in pochi mesi: Pollione, il Duca di Mantova (Rigoletto) e Percy (Anna Bolena). Tre ruoli nuovi, mi pare. È una svolta nella sua carriera?
E.S.: Il Duca di Mantova, l’avevo già cantato nel 2019. Più che una svolta, direi che c’è una continuità. Ho già cantato tutte le regine donizettiane. Mancava solo Anna Bolena. Ho cantato anche una Caterina Cornaro, dove Gerardo è ancora più lirico di Percy, un ruolo che ha cantato anche José Carreras, e tenori ben più lirici. Un ruolo ancora più centrale, con meno acuti che Percy, per esempio. Quindi diciamo che, avendo cantato Leicester (Maria Stuarda), che invece è più acuto, tutto scritto su una linea di canto verso l’alto, meno centrale, mi pare che Percy rimanga più centrale, con qualche momento più acuto, collegato a sistemi di colorature posizionate sia nella prima che nella seconda aria e presenti soprattutto nelle reciproche cabalette, complicando di molto le cose, poiché giungono alla fine di arie già difficili e a cui si arriva per forza di cose un po’ stanchi. Questo ruolo è scritto un tono e mezzo sopra ed evidentemente veniva cantata in altro modo, una voce falsettata, bianca, ma sarebbe incantabile oggi. Però Percy non è un ruolo di svolta, perché ho già affrontato il Donizetti serio in varie occasioni. Ho fatto il Roberto Devereux alla Fenice ed è un ruolo che non ha gli acuti di Percy, scritti, essendo un ruolo più centrale. Però è sempre lo stesso tipo di scrittura, nello stile, per la drammaticità dei duetti, nei recitativi. Quindi non vedo quella svolta lì. Pollione posso dire di sì, però è un figlio o un nipote dei ruoli rossiniani. Quindi tutti e tre i ruoli non sono una svolta, sono ruoli che contribuiscono ad arricchire il mio repertorio.

C.F.: Per svolta, intendevo che si sta allontanando un po’ da Rossini. Di Rossini ha cantato quasi tutto, moltissime parti serie e varie opere buffe.
E.S.: Le parti buffe furono soprattutto all’inizio della carriera, perché più leggere. E allora nessuno avrebbe scommesso che un giorno avrei cantato i ruoli da baritenore, anche se due o tre persone mi avevano detto che non ero fatto solo per il Rossini leggero. E questo si è realizzato fin dal 2015 con Armida, con Alberto Zedda, poi Ermione, La donna del lago e via dicendo. Ho cantato anche una Semiramide, qualche anno fa, che non è né un’opera buffa, né una parte per baritenore. La parte di Idreno è ibrida, difficile per qualsiasi voce, e ci vuole molto coraggio.

https://www.youtube.com/watch?v=u9mhsbplUqs

Rossini, Semiramide (Idreno secondo atto , “Semiramide” , Rossini , teatro la Fenice Venezia)

C.F.: Ha interpretato anche qualche rarità, come il Sigismondo di Rossini.
E.S.: Avendo frequentato l’Accademia di Pesaro, mi è stato subito attribuito il ruolo di Radoski nel Sigismondo, un personaggio minore. La parte principale era tenuta da Antonino Siragusa ed io ero ancora piuttosto giovane e alle prime armi per ruoli più impegnativi. A Pesaro, l’anno dopo, ho cantato Mambre nel Mosè, L’occasione fa il ladro nel 2013 e quest’anno vi torno per Otello.

C.F.: Ha cantato rarità anche in altri compositori, non solo nel mondo rossiniano: Salvini (Adelson e Salvini), Corasmino (Zaira), Gerardo, di cui parlavamo prima, e persino l’Egeo della Medea in Corinto di Mayr. Cosa ne pensa di queste opere meno rappresentate, che ritengo debbano venir rivalutare. Mayr, per esempio, è un compositore da riscoprire.
E.S.: Certo. Si parla di opere che ho cantato a Martina Franca, sia la Medea sia la Zaira, dieci anni fa, mentre Adelson e Salvini, registrato per Opera Rara con Daniele Rustioni, a Londra, è stato dato in concerto al Barbican Center. Si tratta di ruoli da cui non possiamo prescindere. Il bel canto nasce da lì. Donizetti nasce da Mayr e per me affrontare questi ruoli è stata un’ottima scuola, perché nella Zaira, per esempio, c’è una prima aria molto difficile e, per poter approdare a ruoli tenorili estremi come quelli del Pirata o dei Puritani, è certamente bene aver prima affrontato una Zaira o una Sonnambula, come a me è successo. E aggiungo che anche Il pirata è un’opera che mi piacerebbe arrivasse prima o poi. Anche della Zaira ci fu l’incisione in diretta, molto emozionante. La Medea di Mayr fu una bellissima operazione. Eravamo due tenori. È lo stile del Rossini napoletano, due tenori, due soprani, ciascuno con colori differenti. Sono opere molto belle. Bisognerebbe proporle più spesso, anche perché si danno sempre gli stessi titoli (Tosca, La bohème, La traviata, Il barbiere di Siviglia). Ci vorrebbe un po’ più di varietà.

https://www.youtube.com/watch?v=no9muI9Ynng

Bellini, Adelson e Salvini

C.F.: Oltretutto, la Medea è di poco anteriore all’arrivo di Rossini a Napoli e la compagnia era già la stessa: Manuel Garcia, Andrea Nozzari, Isabella Colbran nella parte di Medea. È più Rossini ad attingere da Mayr, ne eredita la compagnia e in parte anche lo stile, benché poi Rossini l’abbia arricchito con la propria impronta personale.
E.S.: A proposito di Medea, canterò l’opera di Cherubini a Madrid nel 2024.

C.F.: C’è tutto un repertorio del primo Ottocento da riscoprire, Mayr, ma anche i contemporanei di Bellini e Donizetti, e poi di Verdi, come Pacini e Mercadante.
E.S.: Assolutamente, ma i teatri non investono, hanno paura, e con la pandemia c’è stato un danno ancora ulteriore, perché anche quando i teatri avessero voluto rischiare con repertori diversi, adesso non lo fanno più, perché temono di non riempire il teatro, che il pubblico non accorra. È oneroso. Quindi non rischiano più.

C.F.: Parlando di repertorio, ha una predilezione? Perché succede che talvolta i sovrintendenti propongano Rossini o Donizetti, quando l’interprete preferirebbe cantare altro.
E.S.: No, avendo fortunatamente una carriera molto varia, con ruoli diversi tra di loro, anche se essenzialmente presi dal bel canto, con qualche incursione nel repertorio francese e nel repertorio verdiano, che comunque in futuro verrà maggiormente affrontato – ci sarà Un ballo in maschera a Marsiglia –, posso dire di essere fortunato, perché non vengo categorizzato solo come rossiniano o belcantista. Parto da quello, ma canto anche altro. Mozart. In futuro, canterei volentieri l’Idomeneo. Torno sempre a Rossini, Donizetti, Bellini, perché sono il mio terreno di partenza. E anche cantando altri repertori, vi ritorno arricchito, perché la voce acquisisce volume, ma non solo, anche colore, spessore, talvolta eroicità, che serve pure nei ruoli rossiniani. Adoro tutto quello che è scritto bene per la mia voce. Se mi si proponesse oggi un Rossini buffo o un Donizetti buffo, lo rifiuterei, perché non sono più adatti al mio tipo di voce, che ha bisogno di una base solida nel centro, lirica, con puntature, slanci in acuto, ma sempre con riferimento alla prima ottava, altrimenti risulta troppo metallica e poco calorosa, mentre, quando c’è un centro da sviluppare, mi trovo molto meglio.

C.F.: Allora ha rinunciato a Nemorino (L’elisir d’amore) e ad Ernesto (Don Pasquale)?
E.S.: Ernesto, sì, ma c’è anche un’altra ragione. L’unica cosa di Ernesto ad essere scritta bene per la mia voce è la cavatina, ma non la cabaletta. La canterei molto volentieri in concerto, ma la cabaletta è scritta per una voce più leggera, meno centrale. Tanto è vero che la cantano i tenori leggeri. Inoltre questi ruoli vengono resi dai registi in modo che il tenore appaia spesso come lo sciocco della situazione, e questo mi dà fastidio; possiamo certo recitare, ma perché deve sempre essere il tenore il fesso? Rifarei molto bene L’elisir d’amore, perché è scritto molto bene per il mio tipo di voce; l’ultima volta l’ho cantato a Berlino nel 2016, però non mi è stato più proposto. Se dovessero propormelo in una regia in cui Nemorino non è lo stupido del villaggio, lo rifarei. Purtroppo, quando lo richiedono a star internazionali, allora sono loro a fare da regista. Ma per un cantante che non ha la stessa fama internazionale, gli fanno fare di tutto, lo trattano da sguattero, deve far ridere. E questo non mi piace, perché perde dignità, il carattere stesso.

Enea Scala durante la sua intervista con Camillo Faverzani

C.F.: Qual è il suo rapporto con i registi e con le regie?
E.S.: Non ho quasi mai avuto problemi con i registi. Ovviamente, ci sono momenti della carriera, all’inizio, in cui ci si deve anche adattare a dei diktat, perché la nostra opinione spesso non conta. Si può dire: questa postura non la posso fare, perché non mi aiuta a cantare. Ma non si può scegliere. Col tempo si ha più modo di dire la propria, di esprimere un parere. Se il regista è bravo, allora ci convince. Se ha un’idea veramente forte e se la sa spiegare con le parole giuste, se fa capire perché bisogna fare una cosa più di un’altra, se è veramente intelligente e riesce a leggere nel pensiero la chiave giusta per entrarci, allora vi convince e si accetta, pur dicendosi che non è quello che si sarebbe fatto, però, da come è stata spiegata, ha senso. Quando non riescono a convincere, o si accetta per non creare dissapori, perché è importante non suscitare alterchi in seno al teatro o alla compagnia, altrimenti diventa difficile da sopportare, durante le prove e le recite, e arrivare alla fine, come per ogni altro mestiere. Oppure, in certi casi, quando il regista pretende, per esempio, di farvi cantare l’aria principale dal fondo, si fa presente che in genere il pubblico vuole vedere l’artista da vicino e inoltre più la voce è vicina, più si proietta meglio e supera l’orchestra. Ma purtroppo alcuni registi, non tutti, non conoscono la musica; vengono dal teatro o dal cinema e non conoscono l’opera, e partono da presupposti cinematografici o teatrali di grandi effetti. Ma con i bravi registi, si ottiene una sintonia perfetta e si riesce a creare il personaggio giusto, e i maggiori successi nascono così.

C.F.: E ci sono registi che si lasciano convincere dalle necessità del canto?
E.S.: Non solo. E sono i miei preferiti. Ci sono quelli che, riconoscendo l’esperienza dell’artista, che ha coscienza del personaggio, che lo ha fatto suo, perché lo ha già cantato o lo ha studiato approfonditamente o lo sente congeniale a sé stesso, durante le prove si affidano alle capacità dell’interprete, gli lasciano libertà, aggiungendo solo qualcosa alle proposte del cantante. L’importante è creare il personaggio. Inutile indugiare sui nomi di star internazionali, perché è assodato che sono bravi (Graham Vick, Krzysztof Warlikowski, Damiano Michieletto), ma un regista italiano di gran de talento con cui io ho lavorato benissimo è Stefano Vizioli. Abbiamo fatto una Sonnambula nel 2010 e mi sono trovato veramente bene. È l’esempio lampante di un regista semplice, lineare, ma con idee efficaci, teatrali, che non va contro la musica.

C.F.: Progetti per il futuro?
E.S.: Abbiamo detto di Un ballo in maschera a Marsiglia nel 2024. Nell’immediato c’è Raoul de Nangis degli Huguenots a Bruxelles. Per quest’anno c’è una serie di grands opéras. Dopo Les Huguenots, ci saranno Les Troyens a Colonia, dove debutto in Énée, poi Robert le Diable a Palermo. L’anno prossimo, invece, ci sarà la trilogia Tudor donizettiana a Bruxelles, intitolata Bastarda. In realtà si tratta di una tetralogia, perché c’è anche Il castello di Kenilworth. Tutte le regine in due serate. Una produzione enorme, megagalattica, che richiede un grande investimento di scenografia, costumi, artisti. Sarà il momento di mettere insieme ciò che ho cantato separatamente nelle singole opere, anche se io non riprenderò Devereux, ma solo Percy e i due Leicester (Kenilworth e Maria Stuarda).

C.F.: Qualche desiderio?
E.S.: Prendiamo, per esempio, una voce come quella di Gregory Kunde che ha cantato Rossini e molto bene. Anch’io spero di arrivare a cantare il Rossini serio finché potrò, perché finché avrò la voce duttile, la possibilità di cantare le colorature e gli acuti con leggerezza, io lo farò volentieri. Poi il repertorio francese, anche quello, sempre. L’anno scorso, ho affrontato Werther in streaming e ora sogno di riprenderlo in scena, perché è un ruolo stupendo. Penso che Werther e Hoffmann, sia a livello di canto che di personaggio, di attore, siano tra i ruoli più belli e più completi mai cantati finora. In futuro, ci potrebbe essere Faust. Per quanto riguarda Verdi, mi auguro pure una crescita e, dopo Un ballo in maschera, spero di approdare con molta tranquillità al Trovatore e magari anche a Don Carlo. Ma, una volta che si è fatto Manrico, è difficile tornare a Rossini. Quindi bisogna arrivarci con calma.
Comunque sono già molto contento, perché affronto un repertorio molto vario, che spazia da fine Settecento a fine Ottocento. La voce è una cosa molto personale che si regola in parte con la carriera o che, viceversa, viene regolata dalla personalità dell’interprete. Ci sono titoli che quattro o cinque anni fa non avrei mai scommesso di poter cantare e che oggi canto, lo stesso Pollione, Raoul (Les Huguenots) o Des Grieux (Manon). La voce cambia e la testa segue la voce. Purtroppo talvolta si sentono interpreti standard, tipo elenco del telefono; cantano tutto nello stesso modo, con una bella emissione, pulita, ma non la partitura. Io preferisco una lettura più personalizzata, anche con difetti, con piccole cose personali che danno qualcosa in più, e lasciano un’impronta personale, un’emozione di un certo tipo, il graffio indelebile dell’artista.

C.F.: Nel repertorio francese, oltre ai titoli rievocati, ho notato qualche rarità come Le Duc d’Albe (Henri de Bruges) di Donizetti, La Juive (Léopold) di Fromental Halévy?
E.S.: È un repertorio in cui mi trovo bene. La prima esperienza di cui non mi dimenticherò mai è stata Castor et Pollux a Vienna, con Christophe Rousset, nel 2011. Una prima esperienza in francese e un tipo di canto difficile, perché era uno stile tecnicamente vicino a quello rossiniano, senza tuttavia esserlo. Mi trovai a studiare due ruoli, tra cui un’aria difficilissima, con acuti, colorature. Purtroppo ero molto teso, a causa del debutto in lingua francese, e probabilmente si è percepito. Ma è normale, non siamo delle macchine. Poi ho fatto L’Heure espagnole (Gonzalve) di Ravel, un’opera non facile da cantare. Ho cominciato a studiare il francese per Arnold, dopo averlo cantato in italiano, con un coach di lingua francese e così ho maturato la pronuncia. Con Le Duc d’Albe a Gent, ho iniziato a parlarlo, a capirlo. Poi è venuta La Juive a Lione. Anche se il pubblico percepisce sempre un piccolo accento italiano e mi sembra di capire che non gli dispiaccia affatto.
Parlando del repertorio francese, mi piace molto anche perché la pronuncia della lingua francese aiuta ad arrotondare, con vocali più chiuse, nasali con una certa rotondità, e la voce diventa più amalgamata. E anche quando ero più giovane e la voce era più aperta, più schiacciata, meno rotonda, il repertorio francese mi ha aiutato ad arrotondare e la voce diventa più bella. E quando si torna a cantare in italiano, si immettono nella pronuncia italiana forme prese dalla lingua francese. È una delle caratteristiche del cantare in francese che mi piace molto.

https://www.youtube.com/watch?v=2PJy195qdb8

Le Duc d’Albe : « Anges des cieux »

C.F.: Mi pare che abbia un buon rapporto con i teatri francesi.
E.S.: I teatri con cui ho maggiormente lavorato sono stati Marsiglia, Lione, il Théâtre des Champs-Élysées a Parigi, Lilla, Digione e Rouen, dove ho debuttato nel 2009, nel Barbiere di Siviglia, poco dopo Jesi. Fu la prima esperienza internazionale. La carriera era iniziata da due anni in piccoli ruoli. Il primo ruolo principale fu Almaviva nel Barbiere. Forse ho lavorato più in Francia che in Italia.

C.F.: Parlando di teatri, una domanda che forse le faranno sempre: il suo cognome è un po’ impegnativo nell’ambiente operistico?
E.S.: Per ora, porta sfortuna (risa). A dire la verità, non miro per forza a quel teatro. Io punto innanzitutto sui ruoli. Penso che se un giorno un cantante verrà ricordato, lo sarà per il suo repertorio, non per i luoghi in cui ha cantato. In grandi teatri, meglio ancora. I cantanti spesso vengono scelti in funzione della fama internazionale oppure sono stati formati nel teatro stesso, tramite l’accademia. E questo avviene anche a Parigi, a New York, a Londra. L’importante è cantare un ruolo per almeno quattro o cinque recite, in modo da godersi la parte, da farla crescere, da svilupparla, per prenderne coscienza. Se un giorno ci cantassi, ne sarei felice; però non è una questione di vita o di morte.

C.F.: Ha qualche modello, anche del passato, Nozzari, David, Garcia, Rubini?

Giovanni Battista Rubini (1794-1854) , Arturo (I Puritani)

E.S.: Modelli per ogni repertorio, autore, talvolta ruolo, sì, ne ho tanti. Purtroppo non abbiamo avuto modo di sentire i primi interpreti e le partiture non bastano a sapere come venivano rese le note allora. Saremmo stati fortunati se qualcuno di questi nomi fosse stato registrato, come l’ultimo castrato della Cappella Sistina, ma purtroppo non è così. Io ascolto spesso Beniamino Gigli, Enrico Caruso, e cerco di prendere qualcosina, ma anche lì il gusto è cambiato. Non si può cantare oggi come oggi con quel tipo di voce, perché risulterebbe ridicolo in certi contesti. Parlo soprattutto di un repertorio più lirico. Anche Pavarotti è sempre un riferimento, perché comunque aiuta a capire il fraseggio di certi ruoli. Dà la sensazione di capire dove è possibile ottenere una certa sfumatura, pur seguendo quello che è scritto, ma dando qualcosa di più. Cambiando colore, anche nella stessa battuta o in due battute vicine.

Una voce come Carreras è stata una voce rubata a Rossini, baritenore. Ascolto il suo Otello e mi dico: perché non ha fatto questo repertorio? Ha bellissime colorature, una voce stupenda. Abbiamo avuto voci rubate a questo o a quell’autore, perché erano repertori che non si frequentavano.

C.F.: Alfredo Kraus?
E.S.: Ah! È uno dei miei idoli, da cui prendere esempio proprio per come è arrivato alla fine. L’intelligenza. Nel repertorio francese, belcantistico donizettiano, Verdi. Si può attingere, sicuramente, ma non si può copiare la voce di Kraus, la sua posizione sempre alta, ma sempre molto personale, che talvolta vien percepita come voce nasale, anche che per me non lo è. Qualcuno mi dice che io prendo qualcosa dal suo stile, e ne sono ben felice, se veramente ci riesco. Poi ascolto anche Roberto Alagna, il connubio perfetto tra l’italianità e la francesità.

Alfredo Kraus (1927-1999)

Gregory Kunde e Chris Merritt per Rossini, che ho conosciuto personalmente e che mi hanno dato anche molti consigli, molto gentili entrambi. Possono tutti insegnarci qualcosa. Persino le voci che non si stimano particolarmente.

C.F.: I direttori d’orchestra?
E.S.: Mi danno tutti qualcosa. Ma ci sono quelli che riescono a mettere la voce più in risalto, perché ci assecondano di più, e quelli che purtroppo sono molto meccanici e tendono più a privilegiare l’orchestra che non le voci. Mi sono trovato molto bene con giovani, ma già esperti direttori, Daniele Rustioni, Giampaolo Bisanti, Sesto Quatrini, Michele Spotti, Francesco Lanzillotta, ma anche con nomi che lavorano da decenni come Paolo Arrivabeni, Maurizio Benini, Gianandrea Noseda. Poi ovviamente ci sono quelli che non ci danno libertà e qualcuno che invece ci dà più respiro. In generale, mi trovo sempre bene con tutti, ma c’è chi ci facilita il lavoro e chi meno, chi si deve seguire un po’ di più, perché se non si segue si rischia di essere messo in difficoltà. All’inizio, i giovani direttori conoscono meno le voci, perché hanno poca esperienza, ma quando capiscono i nostri bisogni, sono sempre molto costanti, pronti e reattivi. Alberto Zedda, come maestro rossiniano, mi ha dato tanto, durante l’Accademia rossiniana, a Pesaro, nel 2009, con consigli di cui mi ricordo ancora oggi, non solo per l’interpretazione rossiniana, ma anche più in generale per il modo di affrontare un recitativo, i passaggi difficili della coloratura, lo studio delle arie. Era molto severo. Quando si arrabbiava, c’era un silenzio tombale. Durante le prove, ha fatto piangere anche colleghe famose. Un’ottima scuola: la persona più dolce di questo mondo, ma anche la più esigente. Rifiutava l’approssimazione.

C.F.: Un’ultima domanda, ma ci siamo già: la formazione.
E.S.: Ho studiato a Bologna, in Conservatorio. Poi privatamente. Ma ovviamente la formazione rossiniana non è venuta dal conservatorio, perché purtroppo nei conservatori italiani non si fa. Rossini viene ancora visto come un autore minore, rispetto a Verdi o a Puccini. E c’è chi arriva a cantare Verdi senza conoscere il bel canto. Ma neanche Mozart o Haendel. In America, le voci rossiniane si formano subito, perché partono da Haendel. Questo manca nelle scuole italiane, ma certo dipende anche dagli insegnanti. Poi ho proseguito all’AsLiCo (Associazione Lirica e Concertistica Italiana), con La sonnambula, e mi si è aperta la strada verso quello che canto oggi, perché è già una parte per Rubini, come Percy. Una volta, ci si facevano le ossa nei teatri di provincia. Oggi questo non avviene più. L’AsLiCo li ha un po’ sostituiti, ma c’è già la critica, che viene da ovunque, come pure il pubblico, che giunge da tutta la Lombardia e dall’Emilia. Poi ci sono i concorsi a ruolo, una buona esperienza per impossessarsi di un personaggio. Feci una cosa del genere con Lo speziale di Haydn, nel 2007, con Claudio Desderi, nel circuito veneto. Un’esperienza che mi è servita, perché lo stile di Haydn si ritrova in Mozart, cose di Mozart si ritrovano in Rossini. Tutto torna. Poi l’Accademia rossiniana e l’esperienza come comprimario, sul campo. Tutto serve a creare dentro di sé una base solida, anche psicologicamente, per dover affrontare mille o duemila persone ogni sera, con la stessa energia, con la stessa concentrazione. Non è facile. Ma è indispensabile.

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